Oggi, nel ventesimo anniversario della scomparsa di Pier Giorgio Righele, vogliamo condividere con la nostra Franca Floris il ricordo di lui e della sua figura carismatica, fondamentale per noi e per la nostra crescita corale.
PIER GIORGIO RIGHELE
Il ricordo di Pier Giorgio Righele mi accompagna da quasi vent’anni.
Indelebile, preciso, nitido, malinconico, vivo.
Raccontare di questo importante direttore di coro dell’Italia corale degli anni 80/90 non è per me facile, ma il fatto che mi venga chiesto, che considero un onore, e i sentimenti di stima e riconoscenza dei quali mi sento ancora debitrice nei suoi confronti mi convincono e aiutano a farlo.
L’incontro con Pier Giorgio avvenne durante i corsi internazionali di canto gregoriano di Cremona, tra i banchi grondanti sudore delle classi di L.Agustoni, N.Albarosa, J.B.Goeschl, G.Milanese e A.Turco.
Oltre al caldo spaventoso e afoso che mi fece riconsiderare come “fresche” le estati sarde, due i miei motivi di riconoscenza verso quei corsi e quella città: la conferma del fatto che senza uno studio serio e approfondito del canto gregoriano l’approccio alla polifonia non può che essere superficiale e di insoddisfacente imitazione di un modello ascoltato qua e là da incisioni di cori anche professionisti che si “limitano” ad eseguire quanto scritto sulla partitura senza aggiungere ciò che la partitura non dice a voce alta ma senza cui le pur impeccabili esecuzioni non palpitano e poi quell’incontro.
Incontro straordinario che ti cambia la vita, le lunghe chiacchierate sul coro già al primo giorno su come leggere, insegnare ed interpretare la polifonia, come a questa appassionarsi per poi trasmetterla, questa passione, questo amore, prima ai cantori e poi agli ascoltatori.
Ore e ore a parlare di quanto sia fondamentale il testo.
Prendere in mano le composizioni di Palestrina, Josquin e Monteverdi (che poi erano tra i suoi autori preferiti), quasi testi sacri e discutere di come sia importante e invece troppo spesso sottovalutata, trascurata o addirittura ignorata l’articolazione e la conseguente restituzione della parola che poi si fa frase, le frasi che danzano l’un l’altra fino al raggiungimento di un legato che (almeno nella mia esperienza) non è dato sentire se non in qualche rara, isolata, preziosa occasione; la conoscenza e uso degli accenti, la lingua latina… e i risonatori?
Ma quanto è importante che il cantore sappia dove indirizzare la propria voce, come renderla più potente, morbida e naturale?
Perché non insegnarglielo?
Perché non rendere il cantore partecipe e artefice della scoperta della potenzialità e della valorizzazione della propria voce?
Perché i Cantori devono essere i protagonisti, sempre e comunque.
E quanto parlare dell’importanza della respirazione e del fatto che bisogni riportarla ad atto semplice e naturale e non sia invece, come spesso accade, il risultato di un processo dal meccanismo complicato, farraginoso, quasi impedimento al bel canto.
Riportare naturalezza nell’atto primitivo della respirazione, restituire naturalezza al suono della parola, dare risalto alla poesia della parola, alla poesia della musica, alla musica della poesia…
Questi erano gli argomenti principali dei nostri discorsi, e mentre parlava e capivo tante cose in fretta e mi sentivo di aver vissuto fino a quel momento inutilmente tanto giovane e stupida ero e di sicuro gli sembravo, lo ascoltavo (ma parlavo tanto anche io, eh!) con ammirazione non solo per i contenuti e per la facilità con la quale mi sembrava di cogliere l’essenza dell’argomento ma anche e soprattutto per la passionalità con la quale affrontava ogni dibattito.
La stessa passionalità di quando raccontava della poesia nascosta che nuota in un bicchiere di Reciotto (ahimè, su questo fronte è stato un gran Maestro ed io un pessimo, astemio discepolo!), che si assapora gustando gli asparagi di Rosà o leggendo un passo del Cantico dei Cantici, guardando dal vivo un dipinto di Bellini, un capitello, passeggiando all’interno del teatro Olimpico…
Era un musicista completo e la cultura classica sulla quale si era formato, della quale si era nutrito fin dalla più tenera età avevano fatto la differenza nel suo approccio alla direzione corale.
Omero e i grandi greci, interi passi dell’Iliade ed Odissea mandati giù a memoria e in lingua originale per scelta propria, le traduzioni dal greco al latino e viceversa, Dante, Petrarca: questi i giochi che più lo appassionavano da giovanissimo studente quando, obbligato a rimanere seduto ad aspettare che i compagni finissero i compiti che lui aveva completato velocemente e senza sforzo alcuno, trascorreva quelle ore di “custodia libera” a “trastullarsi” con i libri.
La lingua francese imparata nello stesso modo, leggendo e rileggendo gli autori francesi, i quotidiani e le riviste più disparate e poi la conoscenza della liturgia che gli veniva in parte dalla pratica in seminario, in parte dalla consuetudine alla lettura dei testi sacri.
Si sentiva (ed io come lui ancora oggi), per quanto riguarda il canto corale, debitore di riconoscenza verso Cremona e Arezzo le città nelle quali si era formato.
Cremona e il canto gregoriano: su tutti i generi e a mio parere, quello nel quale si sentiva davvero a casa sua.
Interprete raffinato ed indiscusso aveva fatto della salmodia il mezzo più appropriato per insegnare al suo coro e a tutti coloro che lo seguivano, ciò di cui sopra: il legato, l’articolazione, l’uso di una respirazione naturale, mai forzata.
Una palestra per la vocalità e per qualsiasi genere corale.
Altro che vocalizzare aridamente in coro ripetendo scale ed arpeggi!
Aveva accolto e raccolto a piene mani dagli insegnamenti semiologici dei grandi docenti dei corsi di Cremona dei quali era diventato amico e collega.
Il gregoriano non solo per eseguire bene il gregoriano ma come mezzo per arrivare all’esecuzione della polifonia della scuola romana, veneta, napoletana…
E Arezzo con il suo concorso che dava la possibilità di ascoltare il meglio del mondo corale allora in circolazione: grandi compagini corali, gruppi madrigalistici, le schole gregoriane.
Si buttava a capofitto nell’ascolto razionale e di tutti gli ascolti faceva tesoro.
E poi le passeggiate al corso, le chiese, l’amore per Piero della Francesca, le animate discussioni/baruffa ai tavolini del bar di fronte al Petrarca che si protraevano all’infinito.
Il suo punto di forza credo fosse la semplicità: la semplicità come punto di arrivo dopo uno scrupoloso e duro lavoro sulla musica e in particolare sull’articolazione del testo, sacro o profano che fosse; musica e testo che restituiva all’ascolto tali e quali, talvolta perfino nobilitati dalla sua sensibile e sempre raffinata interpretazione.
Allora chi ascoltava si sentiva catturato e impregnato da un suono avvolgente, morbido, naturale, ricco di colore, “declamato” con semplicità dai cantori.
La musica e i cantori erano il suo mondo e ad entrambi si accostava con il massimo rispetto e questo, soprattutto, cercava di insegnare nei corsi che teneva qua e là per l’Italia.
Un fortunato incontro, quello con Pier Giorgio, che ha segnato un importante passo nella mia vita e che mi ha spronato a studiare, leggere, confrontarmi sempre di più, a non accontentarmi mai troppo in fretta, a non avere fretta del risultato: seminare, innaffiare, coltivare con amore, aspettare… E lui, “il miglior fabbro”, il poeta del canto corale, era anche paziente giardiniere dei “Cantori di Santomio”, allevati, curati, rispettati e amati.
Insegnamenti, consigli, esempi che non lesinava ma spargeva a piene mani ovunque andasse ad aiutare un coro, un direttore.
Che emozione quando, l’ahimè compianto Tito Molisani volle intitolargli il suo gruppo femminile (Schola Gregoriana P.Righele), che commozione quando Matteo Valbusa fondò e proprio nella sua amatissima terra, l’Accademia Pier Giorgio Righele: scuola per i giovani direttori di cui sarebbe stato davvero orgoglioso ed alla quale, se ci fosse stato concesso di averlo ancora con noi, avrebbe regalato tantissimo.
Che scuola era ascoltare in prova o in concerto (ma in prova soprattutto) un mottetto, una Chanson eseguita dai Cantori e diretta da Pier Giorgio: si percepiva qualcosa che andava al di là della buona esecuzione; erano il calore e il colore del suono corale, unico, inimitabile del suo coro, risultato del paziente e certosino lavoro sul testo, sulla vocalità, sulla singola persona.
E per questo era invidiato da colleghi ben più blasonati, che venivano dal mondo accademico mentre lui con orgoglio ribadiva di essere un autodidatta, direttore dilettante, bancario di professione.
E per questo motivo e per il suo temperamento sanguigno e irruento si era anche attirato le antipatie di alcuni direttori che non riuscivano a spiegarsi la magia di un suono corale così morbido e avvolgente e di un legato così sorprendente scaturire dal gesto non sempre “accademico” di un impiegato del Banco Ambrosiano Veneto.
Questo lo aveva fatto soffrire tanto.
Di contro, tantissimi direttori e cantori di ogni parte d’Italia, subivano il suo innegabile fascino, lo consideravano il Maestro per eccellenza al quale si può chiedere perché lui è sempre disponibile ad aiutare, correggere, consigliare.
Uno di famiglia.
Perché Righele diventava subito di famiglia, ovunque si recasse.
È ancora uno di famiglia nella mia famiglia, nella famiglia del Complesso Vocale di Nuoro, in tutte le famiglie dei cori e direttori che ha conosciuto.
Colto, raffinato, umile, ironico e divertente, irruento e poco diplomatico con chi non meritava il suo rispetto, buono e generoso.
Didatta generoso, ineguagliabile Maestro che ha lasciato alla coralità italiana una straordinaria eredità.
E didatta generoso, ineguagliabile maestro, preziosissimo amico, è stato per me, Righele.
Guardo una foto che lo ritrae, giornale sottobraccio, camminare zoppicando in una via di Malo mentre si reca nella sede del coro di San Tomio e riesco perfino a sentire la sua voce… Maria santissima!
Ed io, tanto, tantissimo gli devo.
Franca Floris
Nuoro 28/07/2017
Il “miglior fabbro” è un verso di Dante (Purgatorio XXVI, 117) che elogia la maestria del poeta provenzale Arnaut Daniel.